PRIMO MAGGIO, L'INTERVENTO DI ROTA ALLA FESTA DEI LAVORATORI: "VOGLIAMO UN'ITALIA CON L'EUROPA E AL TRAINO DELL'EUROPA"
"Lavoro, diritti, stato sociale: la nostra Europa". È questo il titolo scelto da CGIL CISL e UIL quest'anno per la Festa dei Lavoratori. Nella manifestazione di Bergamo, il comizio conclusivo è stato svolto dal Segretario generale della Fai Cisl Onofrio Rota. Di seguito, il testo completo dell'intervento e una galleria fotografica sull'evento.
Oggi, in questa piazza, in questa città, noi tutti, lavoratori e lavoratrici, delegati di fabbrica, RSU e dirigenti sindacali stiamo compiendo un altro grande passo in avanti nel comune cammino del sindacato italiano.
Qui a Bergamo, in contemporanea con la piazza nazionale di Bologna e con quelle di tante altre città di tutta Italia, stiamo alzando il vento dell’unità dei lavoratori.
E’ un vento forte, che soffia fino a Roma, che vuole scuotere le porte di Palazzo Chigi.
Le porte di quel palazzo dove si è rinchiuso un Governo che ama la realtà virtuale, che parla tramite i social ma che fatica a misurarsi, a discutere, a confrontarsi con il Paese reale, il Paese del lavoro. Questo Paese è qui. Qui c’è l’Italia che lavora e che produce.
Non siamo qui per un rito, non siamo qui per abitudine o tradizione. Siamo qui, lavoratori e lavoratrici che non vivono di dichiarazioni ad effetto, che crescono le loro famiglie non con le promesse ma con la fatica quotidiana del lavoro.
Una fatica che sembra quasi sconosciuta a molti di quelli che ci dovrebbero governare, a quelli che vorrebbero decidere sulla nostra vita, sui nostri diritti, sulle nostre necessità.
In questa piazza, caro governo, ci sono le persone che hanno vissuto veramente la crisi, che sanno che cosa significa ritrovarsi senza il salario, senza la possibilità di mantenere con dignità la propria famiglia perché si è perso il lavoro.
Qui non c’è, non c’è gente che vive, vive bene, senza lavorare. Senza aver mai lavorato. In questa piazza ci sono coloro che spesso rischiano la salute e anche la vita nel lavoro. Non possiamo dimenticare che ogni anno decine e decine di lavoratori perdono la vita sul lavoro. Anche in questi ultimi giorni.
Per noi non sono numeri ma nomi, come Nicola Palumbo, 54 anni, schiacciato da un carrello a Salerni; Renzo Corona, 65 anni, travolto e ucciso da un furgone in provincia di Cagliari; Vincenzo Langella, schiacciato dalla caduta di materiali al Porto di Livorno; Daniele Racca, artigiano di 44 anni, schiacciato tra un carrello e una trave nel cuneese; Monica Cavagnis, operaia tessile del tappetificio Radici di Cazzano.
Certo: abbiamo fatto passi da gigante nella sicurezza sul lavoro; grazie alle battaglie sui posti di lavoro, ai passi in avanti nelle tecnologie ma anche grazie agli obblighi che ci ha imposto l’Unione Europea.
Chi si occupa di sicurezza da anni ricorda le fatiche, le lotte per far sì che il Parlamento italiano approvasse le Direttive europee sulla sicurezza sul lavoro!
E’ servito tutto il nostro impegno per approvare la 626!
Questa legge è stata una conquista del movimento sindacale italiano, non un regalo!
Oggi però chi contesta l’Europa si vanta di aver ridotto le risorse destinate alla formazione dei lavoratori sulla sicurezza nelle aziende.
Hanno detto: abbiamo abbassato il costo del lavoro! Non li abbiamo applauditi.
Noi infatti chiediamo a loro: ma la salute, la vita dei lavoratori è solo un costo?
Ci diano una risposta a questa domanda: quanto valgono un braccio, una gamba, un polmone di un lavoratore, che sia un operaio palermitano o un artigiano emiliano, che sia un edile bergamasco o un metalmeccanico romeno, che sia un coltivatore veronese o un bracciante agricolo africano. Quanto vale per voi la loro vita?
Certo non si corrono pericoli stando seduti sugli scranni e nemmeno scrivendo su Facebook. Ma noi il pane ce lo guadagniamo in altro modo.
Anche noi siamo per la tolleranza zero. Non tolleriamo più che si muoia ancora sul lavoro. Zero infortuni mortali sul lavoro: questo è il nostro obiettivo.
Se serve spendere per ottenere questo risultato, si spenda!
Questa è la vera sicurezza! La sicurezza che serve per fare più civile il nostro Paese.
In questa piazza c’è anche chi ha pagato di tasca propria la crisi.
Anche qui, in questa città, in questa parte dell’Italia sviluppata e industrializzata.
La crisi, i lunghi sette anni di recessione, hanno colpito soprattutto qui.
Con i licenziamenti di massa, con la gente in cassa integrazione, con le bandiere sindacali davanti alle fabbriche chiuse, con gli sfratti, con le file alla mensa della Caritas.
Perfino con la catena dei suicidi. Noi sappiamo sulla nostra pelle cosa vuol dire crisi!
Ecco perché non possiamo accettare che mentre la recessione si riaffaccia, bussa alle porte, chi deve governare parli di altro, non ci ascolti, si inventi nemici inesistenti.
Questa piazza lo dimostra: non tentate di dividerci tra Nord e Sud, non cercate di separarci tra privati e pubblici, non pensate di mettere lavoratori italiani contro lavoratori non italiani.
Noi di nemici ne abbiamo uno solo: la mancanza di lavoro, la disoccupazione e tutto ciò che la produce e la alimenta.
E’ questo il senso del Primo Maggio: la prima festa per chi lavora ma anche la più attesa da chi non lavora.
E’ la festa che celebra uno dei sacri diritti dell’uomo in tutto il mondo: il diritto al lavoro.
Per noi, lavoratori e sindacati, il Primo Maggio fa tutt’uno con il 25 Aprile, la Festa della Liberazione dal nazifascismo, e con il 2 Giugno, la festa della Repubblica democratica. Lavoro, libertà, democrazia !
E’ questo il nostro ponte, un ponte che collega le generazioni del lavoro, della libertà e della democrazia. Impediremo a chiunque di alzare muri per separare queste tre giornate, il loro significato, i valori che rappresentato.
Impediremo a chiunque di chiudere i porti davanti alle nostre speranze.
E le nostre speranze stanno nella “nostra Europa”.
Il Primo Maggio di Cgil Cisl Uil di quest’anno porta proprio le bandiere dell’Europa unita. Pochi giorni fa, a Bruxelles, migliaia di lavoratori di tutta Europa, di 89 Confederazioni sindacali nazionali provenienti da 39 Paesi europei, hanno manifestato insieme per dire ai governi europei che occorre un'Europa migliore e più sociale, non meno Europa!
Ecco: non provate nemmeno a separarci dentro l’Europa. Noi vogliamo un’Europa con l’Italia e non un’Italia contro l’Europa o un’Europa contro l’Italia.
Noi vogliamo un’Italia con l’Europa, dentro l’Europa, al traino dell’Europa.
Un’Italia che ponga al centro delle politiche europee il lavoro, i diritti, lo stato sociale.
Altro che politiche sovraniste! Altro che chiusura delle frontiere. Altro che esultare per la Brexit! Altro che aggiungere ogni giorno un nuovo conflitto con i partner europei.
Ma questa gente non si rende conto che è dal 1950 che esiste un unico mercato del lavoro europeo, che ogni giorno milioni di cittadini europei si spostano da un Paese all’altro per lavorare, che a Londra ci sono più lavoratori italiani che in molte città italiane? Che centinaia di migliaia di giovani italiani e di tutti gli altri Paesi europei studiano, imparano, mettono su famiglia muovendosi liberamente dentro il perimetro dell’Unione? Vogliamo davvero tornare alle barriere e alle dogane, ai passaporti per andare in Francia o in Germania? Vogliamo che i 600.000 italiani che vivono e lavorano nel Regno Unito diventino improvvisamente stranieri?
Vogliamo davvero buttare via il patrimonio di libera circolazione dei lavoratori che i nostri genitori si sono conquistati andando a lavorare nelle fabbriche della Germania, nelle miniere del Belgio, nei cantieri della Francia? Vogliamo davvero regalare ai nostri figli un’Italia più piccola? Più isolata? Più vecchia? Più povera?
Ventidue anni fa, il 20 settembre 1997, Cgil Cisl Uil hanno chiamato alla mobilitazione contro la secessione e per l’unità del nostro Paese. Centinaia di migliaia di lavoratori risposero all’appello partecipando alle manifestazioni di Milano e Venezia.
Quel nefasto progetto politico è stato sepolto anche dai suoi stessi sostenitori.
Oggi però si spinge per la secessione dell’Italia dall’Europa.
Gli argomenti e le promesse sono eguali a quelle di ventidue anni fa: da soli facciamo meglio, gli altri sono solo un peso, basta vincoli, basta limitazioni.
Ma qui si apre una contraddizione grande come una casa: l’Europa che si critica (e di critiche ne abbiamo molte da fare anche noi) è proprio quella dove i singoli Stati contano troppo, dove un solo Paese può mettere il veto su scelte importanti per tutti, dove un qualsiasi governo può bloccare decisioni che riguardano 400 milioni di cittadini europei.
Anche noi, noi sindacati europei che rappresentiamo 50 milioni di lavoratori, siamo contrari a questa Europa, senza una sua Costituzione, senza un suo Governo sovranazionale. Ma la soluzione non è tornare al 1949, o tornare alle condizioni economiche e politiche che hanno prodotto due guerre mondiali nel giro di 30 anni.
La soluzione è più Europa unita, più Stati uniti nell’Unione Europea. La soluzione sono gli Stati Uniti d’Europa! Non è un sogno ma un progetto che proprio noi lavoratori dobbiamo sostenere ed alimentare.
Perché siamo i primi interessati ad avere un Paese forte, libero e solidale; un Paese in grado di confrontarsi alla pari con le altre potenze economiche come gli Stati Uniti d’America, la Cina, la Russia. Ma anche un Paese capace di dialogare con il resto del mondo. Le conquiste dei lavoratori italiani ed europei nei diritti civili e sociali sono un modello unico per tutto il mondo.
Il welfare, dalla previdenza alla scuola alla sanità, i diritti sul lavoro, la libertà sindacale, la convivenza pacifica sono ancora oggetti oscuri in molta parte del mondo.
Insieme e forti come in Europa non li troviamo nemmeno negli altri Paesi industriali più avanzati, nemmeno nel Paese più sviluppato economicamente e ricco del mondo: gli Stati Uniti d’America, dove invece si stanno cancellando i pochi diritti sociali conquistati da milioni di poveri.
Eppure qui, in Italia, stiamo abbandonando lentamente ma progressivamente questa Europa. Stiamo abbandonando una comune visione della crescita e dello sviluppo per andare non si sa dove.
Abbiamo costruito il nostro benessere diventando un grande paese industriale e oggi l’industria viene considerata come una malattia o un aspetto marginale della nostra economia.
Al posto di produrre politiche e indirizzare risorse per potenziare la competitività delle nostre aziende si è cancellato il programma di investimenti di Industria 4.0.
Al posto di favorire il trasferimento delle merci e dei prodotti verso i mercati internazionali si vogliono chiudere i progetti dell’Alta Velocità e si bloccano le grandi infrastrutture in tutto il Paese.
Al posto di investire sulla scienza e sulla tecnologia si dà dignità politica alle sette antiscientifiche: dai No Vax ai Terrapiattisti.
Al posto di investire per un’industria più rispettosa dell’ambiente si propone la chiusura immediata di stabilimenti strategici. Per fortuna senza successo.
Al posto di lavorare per un piano energetico nazionale si fanno referendum, per fortuna falliti, per cancellare quel poco di materie prime che abbiamo disponibili.
Si parla di rinnovabili ma guai a fare le pale a vento, sempreché non siano in appalto alla mafia.
Al posto di investire in abitazioni e servizi per rendere più semplice e sopportabile, anzi favorire, lo spostamento delle persone per motivi lavoro si creano frontiere tra le regioni e inospitali le città.
Siamo arrivati al ridicolo, al paradosso: alcune regioni del Nord che chiedono più forze dell’ordine hanno prodotto regolamenti che escludono dalle agevolazioni sociali locali chi proviene da altre regioni e quindi gran parte dei poliziotti.
La loro politica è: vieni da me che ti tratto male! Un bell’invito, non c’è dubbio.
Stiamo facendo la collezione dei No: No TAV, No TAP, No Triv, No Ilva, No qua. No là.
E in alternativa: zero! nulla di nulla! Queste scelte sconsiderate, anti-industriali, anti storiche, ci stanno già costando caro oggi ma, se non abbandonate, diventeranno la più grande ipoteca sul nostro prossimo futuro.
I risultati si questa confusione, di questa mancanza di visione sono già evidenti e sotto gli occhi di tutti: miliardi di investimenti bloccati, cantieri chiusi, aziende che non capiscono da che parte andare, investitori stranieri che preferiscono altri Paesi più sicuri, mafie che prendono il posto delle banche nell’attività di credito, e decine e decine di migliaia di posti di lavoro che non nascono o che rimangono ancora sotto le macerie della crisi.
A che serve entrare nel grande progetto della Via della Seta, se poi i nostri porti vengono fatti funzionare a compartimenti stagni, se le merci non trovano strade per essere trasferite nelle grandi aree produttive e commerciali dell’entroterra, se ci isoliamo anche fisicamente dal resto dell’Europa, se non aiutiamo le nostre aziende a entrare nel mercato cinese?
Anche le politiche sociali attuate da questo governo, senza nessun confronto preventivo con chi rappresenta i lavoratori e le classi meno abbienti, si stanno rilevando un boomerang.
L’anticipo pensionistico venduto come l’abbattimento della Legge Fornero tramite la roboante formula di Quota 100 - come avevamo preannunciato - sta lasciando l’amaro in bocca a molti lavoratori: alle donne che lavorano nel privato, agli operai dell’edilizia e dell’agricoltura, a chi è occupato nelle aree industriali del Paese, ai lavoratori del terziario.
Tra pochi mesi sarà anche chiaro che anche la tanto sbandierata formula “per ogni pensionato in più, una nuova assunzione” si dimostrerà, purtroppo, fasulla.
Anzi, peggio ancora: posti di lavoro fondamentali per la qualità di alcuni servizi essenziali come la sanità, la scuola e altri non troveranno sostituzioni adeguate sotto il profilo professionale.
Il Veneto sta cercando medici specialistici in Romania!
Ci si è semplicemente dimenticati di adeguare il sistema universitario alle necessità del Paese.
Forse non si è ancora capito che un Paese è un corpo unico, non una composizione di Lego da smontare e rimontare a piacere.
Sul reddito e le pensioni di cittadinanza non si è voluto ascoltare chi da sempre assiste i più poveri, le associazioni laiche e religiose che conoscono questa realtà sociale non leggendo i giornali ma nella loro azione quotidiana.
Il risultato è che molti veri poveri sono rimasti esclusi in partenza grazie a regole insensate o discriminanti, si è reso più appetibile il non lavorare rispetto ad una occupazione magari minima, il miracolo dei navigator si dimostrerà un grande bluff o, al massimo, la creazione di qualche migliaio di precari in più.
Anche quando si opera per ridurre la povertà, soprattutto quando si vuole combattere la povertà, non bastano gli slogan populisti, le frasi ad effetto, i conti fatti senza l’oste e tantomeno il puro tornaconto elettorale.
Deve essere però chiaro a tutti che noi non abbiamo pregiudiziali nei confronti di questo governo e di questa maggioranza.
Così è stato anche per tutti quelli precedenti.
Noi siamo veramente preoccupati per come vanno le cose.
Siamo preoccupati per tutti i segni negativi con cui, a distanza di quattro anni dalla fine della grande crisi, si è tornati a misurare l’andamento dell’economia, i numeri dell’occupazione, le percentuali del debito pubblico, la qualità dei servizi, i valori sociali fondamentali: coesione, solidarietà, speranza nel futuro.
Le scelte che si sono prospettate per il prossimo futuro sono ancora più preoccupanti e ci trovano ancora più distanti.
Si parla di introdurre la tassa piatta per tutti. Al momento è stata regalata ad una parte dei lavoratori autonomi. Ora possono pagare, nel pieno rispetto delle regole fiscali, il 30% in meno di tasse di un lavoratore dipendente di pari reddito.
La tassa piatta è niente altro che una riduzione del prelievo fiscale per chi ha i redditi più alti e un regalo per gli evasori fiscali. La grandissima parte dei lavoratori dipendenti e dei pensionati infatti non ci guadagna un euro, non ne avrà alcun beneficio. Ecco perché noi ci siamo sempre opposti a questo sistema e continueremo a farlo.
E noi lavoratori dipendenti e pensionati siamo i primi e – se va avanti così - diventeremo gli unici contribuenti dello Stato !
Però ci chiediamo: come saranno compensate le minori entrate fiscali? Tagliando i servizi? Aumentando il debito ed il deficit pubblico? Aumentando le tasse locali? Di lotta all’evasione fiscale non si parla più. Di tagli agli sprechi nemmeno.
E allora? Forse si pensa di aumentare l’IVA?
Se questa è la strada che si vuole percorrere gli effetti sono già scritti: colpire i redditi più bassi, rimangiarsi i soldi del reddito di cittadinanza, colpire i consumi, mettere in crisi le aziende che producono per il mercato interno.
Altra grande presa in giro, la discussione sul salario minimo.
Viene messa giù così, facile facile, di modo che, a prima vista, chi potrebbe dirsi in disaccordo? Ma basta poco per capire l’introduzione per legge di un salario minimo rischia di indebolire il sistema contrattuale.
E che un buon contratto collettivo nazionale oltre ai minimi contiene tanti altri aspetti che nessun salario per legge prevede: tredicesima e in alcuni casi quattordicesima, Tfr, ferie, indennità, premi, scatti di anzianità, welfare contrattuale.
Allora dobbiamo pensare, piuttosto, a come estendere i trattamenti salariali dei contratti collettivi nazionali rappresentativi a chi oggi ne è escluso, e dobbiamo combattere sul serio la proliferazione di contratti in dumping. Altro che puntare al salario minimo per legge per mettere in soffitta tutte le tutele, trascinando tanti lavoratori verso standard più bassi di quelli attuali!
E’ dunque questo il grande cambiamento che si è promesso?
Il cambiamento che serve è un altro.
Il cambiamento che urge è, scusate il gioco di parole, un cambio di rotta delle politiche governative. Lo abbiamo chiesto e motivato negli incontri con il Presidente del Consiglio, lo abbiamo chiesto e motivato nelle audizioni in Parlamento, lo abbiamo chiesto ed argomentato il 9 febbraio scorso in Piazza San Giovanni a Roma insieme a 200mila lavoratori e pensionati.
Non possiamo andare avanti con le cannonate caricate a salve.
Non c’è nulla di utile per rilanciare le infrastrutture nello “sblocca cantieri”, che anzi allenta le tutele dei lavoratori, depotenzia l’Autorità Nazionale Anti Corruzione, lascia più campo libero alle mafie e mette in mora i principi di concorrenza e della trasparenza.
Non c’è nulla di utile al miglioramento della Pubblica Istruzione nel progetto di controllare i dipendenti pubblici rilevando le impronte digitali o l’iride.
Gli incalliti del non lavoro non perderanno il vizio di farsi i fatti loro in orario di servizio mentre gli enti pubblici dovranno spendere i nostri soldi per installare i mezzi di controllo.
Noi proponiamo invece di mettere insieme tutte le rappresentanze dell’economia per rimettere in pista gli investimenti per l’innovazione, per l’istruzione, per la ricerca, per la buona occupazione.
Sono questi i presupposti per dare vero lavoro ai nostri giovani, per evitare che siamo obbligati ad andarsene dal Sud verso il Nord, dall’Italia all’estero. Ne abbiamo già pochi di giovani e neppure sappiamo tenerceli.
Lo diciamo al Governo ma anche all’opposizione: le rappresentanze del lavoro e dell’impresa vanno ascoltate e le loro istanze vanno considerate e discusse.
Noi proponiamo di ritornare a giocare un ruolo propositivo in Europa: abbiamo sottoscritto un accordo con Confindustria a questo proposito.
Occorre anche ricostruire nella nostra società il senso della solidarietà sociale, della comunità che include, della partecipazione vero e vivo all’impegno sociale e politico, del rispetto delle differenze.
Basta con le offese a chi fa volontariato, basta denigrare chi aiuta il prossimo in difficoltà. Lo dico qui a Bergamo, città per eccellenza del volontariato sociale. A chi occupa il suo tempo libero a favore degli altri va dato rispetto.
La misericordia, l’avere a cuore i poveri, non può essere dipinta come una dannosa malattia. Ma in che Paese siamo arrivati ?!
In fatto di solidarietà il movimento sindacale italiano ha dato grandi lezioni nei lunghi 7 anni di recessione. Abbiamo gestito grandi crisi senza discriminare nessuno, senza dividere lavoratori da lavoratori, ma anzi lottando per una maggiore unità, per pari diritti e pari condizioni. Non abbiamo guardato ai passaporti, al genere, alla mansione.
E’ questo il vero senso del “prima gli italiani”. Perché gli italiani di oggi, come e più di quelli di ieri, sono un popolo ricco delle sue diversità nei saperi, nelle tradizioni, nei gusti, nella parlata, nei pensieri e anche nelle provenienze.
Perché abbiamo bisogno di tutti, nessuno escluso, per dare un futuro al nostro Paese e ai nostri figli e perché questo futuro è per noi nel lavoro.
E nel lavoro non si guarda al colore della pelle, alla provenienza geografica, alla diversità delle idee politiche, alle diversità religiose.
Nel lavoro servono tutte le competenze, dalle più elevate alle più modeste.
Le fabbriche, gli enti, i cantieri, le campagne funzionano e producono solo se accanto agli ingegneri ci sono i manovali, accanto ai tecnici specializzati ci sono gli operai avventizi, accanto ai professori c’è chi pulisce i banchi.
Tutti vanno rispettati. Tutti vanno tutelati! A tutti va data la possibilità di migliorare, di progredire, di andare avanti.
Lo dice la Costituzione Italiana nata dalla Resistenza, lo dice la nostra storia, lo dice il Primo Maggio, festa del lavoro, festa dei lavoratori. Prima il lavoro! Prima i lavoratori! Unità, Unità, Unità !!!